DIRITTO CANONICO

Le facoltà di dispensa attribuite ai parroci

(Articolo pubblicato su "L'Amico del Clero", 2020)

Premessa

La dispensa è l'atto in forza del quale una persona viene legittimamente esonerata in un singolo caso dall'osservare una disposizione di legge a motivo di una giusta causa. Questa eccezione viene riconosciuta con l'emanazione di un atto amministrativo dato dalla competente autorità esecutiva.

Il canone 85 del codice di diritto canonico da una definizione della dispensa tecnica e asciutta, definendola come l'«esonero dall'osservanza di una legge meramente ecclesiastica in un caso particolare», senza però menzionare la necessità della causa giusta e razionale che ne deve costituire sempre il presupposto[1].

Si tratta dunque di un istituto giuridico che ha carattere eccezionale, poiché si realizza attraverso un atto amministrativo con cui si esonera dall'osservanza di una legge al fine di assicurare la giustizia di fronte ad un caso particolare: per questo motivo si afferma che la dispensa potrà essere contra legem ma mai contra ius.

La dispensa viene definita dal codice quale relaxatio legis in casit speciali (il già menzionato canone 85 del Codex iuris canonici). Poiché con la dispensa si riconosce ad una persona, in ragione della situazione eccezionale, un diverso trattamento rispetto a quello disciplinato dalla norma generale, si può confondere con il privilegio o la grazia.

Ricordiamo che essa si differenzia dal «privilegio», perché questo non esonera da un obbligo, né si limita a rendere possibile l'acquisto di un diritto, ma riconosce un diritto soggettivo non concesso dalla norma generale; con la «grazia», invece, si consente, una volta compiuto l'illecito, di essere esonerati dalla legge generale[2].

Il codice del 1983 attribuisce la facoltà di esercitare il potere di dispensa non solo ai Parroci, e ovviamente ai Vescovi, come prevedeva la legislazione precedente, ma in alcuni casi tale potere viene concesso anche ai presbiteri e ai diaconi.

Approfondiamo innanzitutto il caso in cui la facoltà di dispensare è riconosciuta ai Parroci.

La facolta' di dispensa del Parroco

Il canone 1245 del codice del 1917 già riconosceva ai Parroci la facoltà di dispensare dagli obblighi dei giorni festivi e penitenziali[3], con questa distinzione: i Vescovi potevano esercitare questo potere per tutta la diocesi o per determinati luoghi, mentre ai Parroci si riconosceva il potere di dispensare soltanto i singoli fedeli o le singole famiglie, anche fuori dal territorio se riguardava i propri sudditi, nonché i pellegrini, se presenti nel territorio della propria diocesi.

Per concedere la dispensa si richiedeva una giusta e ragionevole causa, come venne poi precisato anche nel Motu proprio De Episcoporum Muneribus[4], del 1966, mentre per quella riguardante i giorni di penitenza ci si riferiva alla Costituzione apostolica Paenitemini[5], sempre del 1966, che rinnovò la disciplina del codice[6].

Le nuove disposizioni del codice del 1983 sono emanate in una forma più concisa rispetto al CIC precedente: per i Vescovi si afferma soltanto che questa facoltà è loro già concessa dal diritto, al canone 87, mentre per i Parroci si riconosce ugualmente la facoltà di dispensare nei singoli casi, con due condizioni:

  • che vi sia una giusta causa
  • che si osservino le disposizioni del proprio Vescovo diocesano

Dunque nel nuovo codice non troviamo più la precisazione che la dispensa può essere concessa dal Parroco per singoli fedeli o alle singole famiglie, ma deve ritenersi in ogni caso che la facoltà di dispensa del Parroco non si possa estendere a tutta la parrocchia[7].

Vale sempre il principio fondamentale che per concedere la dispensa è necessaria la presenza di una iusta et rationabili causa, che si deve valutare rispetto alla gravità della legge dalla quale si intende dispensare. Poiché questo precetto è privo di sanzione, occorre distinguere chi concede la dispensa: se è il legislatore, questa sarà ugualmente valida, mentre la sua inosservanza renderà illecite e invalide le dispense che sono concesse da un' autorità inferiore[8], come un Parroco o un chierico.

Ovviamente, poiché nessuna legge può andare contro il diritto divino, naturale e positivo, non si ammette mai la dispensa, da parte di alcuna autorità, dalle norme che ne siano l'attuazione: questo non potrà farlo neppure il supremo legislatore ecclesiastico, ovverosia il Papa.

I casi in cui Parroci e altri chierici possono dispensare, pur essendo più ampi rispetto al codice precedente, sono sempre tassativamente limitati a quanto espressamente previsto. Peraltro, come ricordato, qualora superino i limiti contenuti nelle norme, il potere di dispensa è esercitato invalidamente.

Vediamo quali sono i casi in cui questa facoltà è attribuita non soltanto ai Parroci, ma talvolta anche ai presbiteri e ai diaconi.

La facolta' di dispensa attribuita ai Parroci, ai sacerdoti e ai diaconi

Come accennato, oltre alla facoltà dei Parroci di dispensare dagli obblighi dei giorni festivi e penitenziali, è ammessa la facoltà di dispensa in questi casi:

  • sia i Parroci, ché gli altri presbiteri o diaconi che assistano al matrimonio a norma del canone 1116 § 2 del CIC, possono dispensare dalle seguenti leggi universali:
  • Dalla forma canonica del matrimonio e da tutti gli impedimenti coniugali ecclesiastici, nel caso di pericolo di morte dei due contraenti, qualora non sia possibile ricorrere all'Ordinario del luogo[9];
  • Quando tutto è già pronto per la cerimonia nuziale e viene rilevato un ostacolo occulto e non sia possibile ricorrere all'Ordinario e purché non sia possibili differire la cerimonia senza un grave male[10];
  • Oltre questi casi è ammessa la facoltà di dispensa:
  • Ai soli Parroci e ai Superiori degli istituti religiosi clericali o delle Società di vita Apostolica di diritto pontificio, nonché al Rettore del Seminario o un suo delegato, spetta il potere di dispensare dai voti privati, purché non si violino i diritti acquisiti da terzi; possono anche dispensare dal giuramento promissorio, con lo stesso limite della salvaguardia dei terzi;
  • Il sacerdote che validamente confessa, può concedere la dispensa ad entrambi i contraenti da tutti gli impedimenti del matrimonio, quando la causa sia occulta e vi sia il pericolo di morte: questa dispensa la può concedere solo nel foro interno, nella confessione oppure fuori dalla stessa;
  • Sempre il confessore può concedere la dispensa da determinati impedimenti matrimoniali, anche nel semplice caso d'urgenza, purché anche qui il caso sia occulto[11].

Come si vede la dispensa interviene sia nei casi in cui la legge non abbia ancora spiegato la sua efficacia, per cui si stabilisce che la norma giuridica non si debba applicare in quel caso particolare, sia quando invece abbia già prodotto degli effetti. In quest'ultima ipotesi la dispensa non farà altro che annullare gli effetti che si sono già prodotti.

Conclusioni

La facoltà di dispensare attribuita dal codice di diritto canonico del 1983 ai Ministri sacri mostra un'attenzione particolare del legislatore per il bene delle persone, che deve andare sempre oltre il rigorismo della norma generale.

Si tratta di un'evoluzione in favore dei fedeli che si trovano in circostanze di vita mutate e sempre più complesse; senz'altro un progresso per il diritto della Chiesa in cui deve darsi sempre più valore e priorità alle necessità delle persone.

Non è altro che l'applicazione di quello che si definisce in dottrina con il dare la precedenza al favor personae, rispetto al cosiddetto favor legis[12].


Mons. Antonio Interguglielmi



[1] Il CCEO, Codice di diritto canonico Orientale, al canone 1536 § 1 contiene infatti un riferimento alla necessità della causa.

[2] La dispensa invece interviene sia nel caso che la legge non abbia ancora spiegato la sua efficacia, nella quale ipotesi si stabilisce che la norma giuridica non abbia per esso applicazione, sia quando la norma ha già spiegato l'efficacia: in questo secondo caso la dispensa revoca gli effetti che da tale norma sono stati prodotti.

[3] Gli obblighi circa i giorni festivi e le opere penitenziali si trovavano nei canoni 1248, 1249, 1250 e 1254.

[4] Papa Paolo VI, Motu Proprio De Episcoporum Muneribus (15 giugno 1966), con cui vennero impartite ai Vescovi alcune norme riguardanti la facoltà di dispensare, in AAS 58 (1966), pp. 467-472.

[5] Papa Paolo VI, Costituzione Apostolica Paenitemini pubblicata il 17 febbraio 1966, in AAS 58 (1966), pp. 177-198, che aveva come argomento la penitenza cristiana, la sua autentica comprensione, e l'adeguamento di essa ai tempi recenti, alla luce degli orientamenti del Concilio Vaticano II.

[6] Per i giorni di digiuno e astinenza, ci si deve riferire alle norme emanate dalla Conferenza Episcopale Italiana, che ha emanato la Delibera n. 27 approvata dalla CEI nella XXIV Assemblea generale Straordinaria del 22-26 ottobre 1984.

[7] I Superiori di Istituti religiosi e delle Società di vita apostolica, se clericali di diritto pontificio, hanno la stessa facoltà riconosciuta ai Parroci, per cui possono dispensare i propri membri e le persone che dimorano notte e giorno nella casa religiosa.

[8] Si deve tener presente il canone 90 del CIC 1983: §1. «Non si dispensi dalla legge ecclesiastica senza giusta e ragionevole causa, tenuto conto delle circostanze del caso e della gravità della legge dalla quale si dispensa; altrimenti la dispensa è illecita e, se non fu data dal legislatore stesso o dal suo superiore, è anche invalida.

§2. Nel dubbio sulla sufficienza della causa la dispensa è concessa validamente e lecitamente». Pertanto È valida la dispensa chiesta e concessa nel dubbio di sufficienza della causa.

[9] Restano esclusi gli impedimenti che nascono dal presbiterato, dispensabili solo dalla Santa Sede, mentre sono dispensabili gli altri di diritto positivo-ecclesiastico, come ad esempio quello di affinità (can. 1092).

[10] Anche qui fanno eccezione gli impedimenti che derivano dai sacri ordini o dal voto pubblico perpetuo di castità emesso in un Istituto religioso di diritto pontificio.

[11] Si pensi ad esempio all'impedimento di parentela legale, ex canone 1094.

[12] Così, J. Krajczyński, La potestà di dispensare del Parroco e di un altro presbitero o di un diacono, in AA. VV., La funzione amministrativa nell'ordinamento canonico, Volume II, Atti del XIV Congresso internazionale di diritto canonico, Varsavia 14-18 settembre 2011, Varsavia 2012, pp. 843-847, a p. 847.

____________________________________________________________________________________________

VOTO, GIURAMENTO E PROMESSA IN DIRITTO CANONICO

Premessa

La configurazione giuridica e la distinzione tra il voto, il giuramento, e la promessa in diritto canonico si collegano a questioni di carattere teologico, morale, ecclesiale e anche filosofico. Nella nostra breve ricerca cerchiamo di inquadrare e distinguere i diversi elementi giuridici che caratterizzano questi importanti istituti della Chiesa.

Il voto

Il canone 1191 al paragrafo primo definisce il voto come «la promessa deliberata e libera di un bene possibile e migliore fatta a Dio, deve essere adempiuto per la virtù della religione».[1] Il "Voto" rappresenta quindi il vincolo sacro più elevato, che per essere tale deve essere «voto pubblico», perché introduce nello «stato canonico» di religioso, secondo quanto dichiara anche la Lumen Gentium al numero 45: «La Chiesa non solo erige con la sua sanzione la professione religiosa alla dignità dello stato canonico, ma con la sua azione liturgica la presenta pure come stato di consacrazione a Dio. La stessa Chiesa infatti, in nome dell'autorità affidatagli da Dio, riceve i voti di quelli che fanno la professione, per loro impetra da Dio gli aiuti e la grazia con la sua preghiera pubblica, li raccomanda a Dio e impartisce loro una benedizione spirituale, associando la loro offerta al sacrificio eucaristico»[2].

Il Concilio Vaticano II quindi, trattando del «voto», sottolinea che, nella universale vocazione alla santità, la pratica dei Consigli evangelici manifesta la perfezione della carità e ricorda che i cristiani che sono chiamati a questo, la seguono per impulso dello Spirito Santo, sia in forma privata che pubblicamente[3].

Quando un fedele assume la professione dei Consigli evangelici con un «voto pubblico», in una delle forme riconosciute dalla Chiesa, è consacrato a Dio attraverso un «nuovo e speciale titolo»; la sua missione sarà quindi di «portare a perfezione» la prima consacrazione operata dallo Spirito nel battesimo[4].

E' bene sottolineare che non è semplicemente la pratica dei Consigli evangelici che introduce nello stato religioso, ma il fatto che la professione avvenga «con voto pubblico», intendendo con questo termine non la modalità esteriore liturgica, quanto invece che vi sia l'intervento della competente autorità ecclesiale alla professione.

Il «voto» si esprime poi concretamente secondo il carisma proprio dell'Istituto in cui è stato emesso. Differisce dunque per un religioso che appartiene ad un Istituto contemplativo, di cui al canone 674, rispetto a quello di un religioso che ha emesso i voti in un Istituto religioso per il quale l'azione apostolica attiva ne contraddistingue la missione, di cui al canone 675 § 1.

E' la radicalità evangelica che contraddistingue il religioso che ha emesso i voti solenni: ha «lasciato ogni cosa» per seguire Gesù, e quindi è «separato anche visibilmente, dalle strutture che contraddistinguono la vita secolare. Questa radicalità è sottolineata nel canone 673 che la definisce come «il primo apostolato di tutti i religiosi».

Occorre precisare che il «voto religioso» differisce dalle nuove forme di consacrazione secolare, previste nel codice del 1983, che sono disciplinate sia nei canoni che trattano della vita consacrata in generale (cann. 573-606), sia in quelli relativi alla loro legislazione specifica (cann. 710-730)[5]. Nel canone 711, si afferma che «un membro di istituto secolare, in forza della consacrazione, non cambia la propria condizione canonica».

Questa consacrazione, definiamola «in secolarità», ha comunque anch'essa un significato «pubblico» disciplinato dal diritto della Chiesa, il cui riconoscimento è avvenuto con la Costituzione Apostolica di Papa Pio XII Provida Mater Ecclesia del 1947[6], quindi ancor prima della revisione del Codice canonico, dove poi è stata regolata nei canoni citati, La consacrazione secolare non comporta un «nuovo stato canonico», proprio per la natura stessa della sua forma che deve realizzarsi «dentro le strutture secolari». Si tratta certamente anch'essa di una consacrazione ma il cui carattere distintivo è dato proprio nel fatto che debba realizzarsi nella vita di ogni giorno, così come quella svolta da un qualunque laico cristiano.

I consacrati secolari svolgono una missione diversa da coloro che emettono i voti religiosi, che è quella di testimoniare Cristo e il Vangelo «vivendo nel mondo e operando all'interno di esso» (così il canone 710).

Ma vi è anche un'altra accezione di «voto», più ampia e non legata alla vita religiosa. Si definisce voto infatti anche l'impegno che un qualsiasi fedele assume davanti a Dio perché riconosce di aver ricevuto una «Grazia particolare» oppure la richiede, e per questo promette di fare o non fare qualche cosa, oppure di donare denaro o altri beni in segno di ringraziamento. Questa materia è regolata dal canone 1191 § 1: «Il voto, ossia la promessa deliberata e libera di un bene possibile e migliore fatta a Dio, deve essere adempiuta per la virtù della religione».

Il codice precisa nei successivi paragrafi del canone 1191 che sono capaci di emettere il voto coloro che hanno un conveniente uso di ragione, a meno che non ne abbiano la proibizione dal diritto, e che quando sia emesso un voto per timore grave e ingiusto o per dolo, è nullo.

Quando con il voto si promette qualcosa, l'obbligo assunto può cessare perché viene annullato da chi ne ha l'autorità attraverso la dispensa[7]. Per questo genere di voti che definiamo di carattere privato, per i fedeli laici, l'autorità prevista dal diritto è il parroco (can. 1196 )[8], nonchè ai Superiori degli istituti religiosi clericali e delle società di vita apostolica di diritto pontificio per i membri degli stessi istituti e il Rettore del seminario o un suo delegato, sempre relativamente alle persone che dimorano nel seminario[9].

L'esercizio della facoltà di dispensare è ammesso qualora la dispensa non pregiudichi i diritti acquisiti da terze persone e non riguarda le questioni di carattere matrimoniale.

Il Giuramento

Il giuramento è definito dal paragrafo primo del canone 1199 come «l'invocazione del nome di Dio a testimonianza della verità» che deve essere prestato secondo «verità, prudenza e giustizia». Si tratta quindi nella invocazione del nome di Dio a testimonianza della verità.

La questione circa la legittimità del giuramento è molto controversa, poiché nei primi secoli il giuramento, collegandosi alle fonti scritturistiche, veniva considerato un illecito: si pensi ad esempio al Vangelo di Matteo, al capitolo 5,36 e alla lettera di Giacomo, al capitolo 5,12[10].

Tuttavia il canone 1199 del codice del 1983, che riproduce alla lettera il canone 1316, del codice del 1917, si collega alla successiva tradizione della Chiesa che ha ammesso la legittimità del giuramento quando chi giura sia condotto da retta intenzione. Si ritrova anzi in numerosi documenti Pontifici la condanna di chi ritenga illecito giurare[11].

Riassumendo le diverse questioni, che spaziano dalla morale alla teologia, al diritto canonico, si può affermare che l'invocazione del nome di Dio può essere fatta su fatti realmente accaduti e soltanto quando non sia possibile attestarli diversamente.

In relazione all'invocazione del nome di Dio si distinguono due tipi di giuramento: invocatorio è quel giuramento con cui si chiama in causa la testimonianza di Dio e imprecatorio, cioè quando si invoca dio come giudice, chiedendo la punizione se quello che si afferma non è vero.

In relazione all'oggetto abbiamo invece: giuramento assertorio, con cui chi giura chiama Dio a testimone, e giuramento promissorio, con cui si invoca Dio a confermare qualcosa che avverrà nel futuro, come garante della serietà di un impegno. L'oggetto del giuramento deve poi essere un fatto onesto, possibile e utile.

Quanto alla forma, può essere semplice o solenne, scritto oppure orale. In considerazione del luogo ove si presta, il giuramento è giudiziale, e come tale può essere imposto dal giudice (necessario) oppure è liberamente scelto (suppletorio), quando è prestato all'interno di un processo[12], oppure è extragiudiziale.

Lo spergiuro e il falso giuramento è punito con giusta pena, come previsto dal canone 1368, oltre a configurare un peccato grave, dal punto di vista morale.

Il secondo paragrafo del canone 1199 prescrive inoltre che il giuramento è sempre un atto personale e come tale non può essere prestato con un procuratore, anche se precedentemente il diritto in alcuni casi ammetteva la sostituzione con un'altra persona che fosse munita di mandato speciale[13].

La promessa

La promessa è l'impegno davanti a Dio di fare o non fare qualcosa; si tratta quindi di una manifestazione della volontà nella struttura simile al voto, che è regolata nel codice soprattutto in relazione al matrimonio.

Nel codice di diritto canonico troviamo infatti al canone 1062 la definizione della promessa di matrimonio che consiste nella promessa, contrattualmente stabilita da una o da entrambe le parti, di contrarre matrimonio, o in un tempo determinato o nel termine consuetudinario.

La promessa può essere bilaterale, ed in tal caso è detta fidanzamento o sponsali, quando tutte e due le parti si obbligano a contrarre matrimonio; oppure unilaterale, che si ha quando è una sola la parte che si impegna a sposare l'altra e questa accetta, senza per conto suo obbligarsi.

La disciplina della promessa di matrimonio è rimessa alla legislazione particolare delle Conferenze Episcopali, le quali dovranno tener conto anche delle leggi civili e di eventuali consuetudini del luogo in cui si effettua.

Il suo inadempimento non dà luogo ad azione tendente ad ottenere la celebrazione del matrimonio, in ossequio al principio della libertà del consenso matrimoniale, ma dà diritto ad azione per il risarcimento dei danni patrimoniali, qualora si possano quantificare.

Va anche ricordato che nel codice del 1917 c'era la possibilità, tra i professi temporanei, di scegliere tra emettere una promessa oppure dei voti: la convinzione era che fossero due cose ben diverse, con i voti decisamente superiori alle promesse. Infatti per la dispensa dalle promesse erano sufficienti le dimissioni del Superiore generale dell'Istituto, mentre per i voti occorreva rivolersi alla Congregazione dei religiosi[14].

Antonio Interguglielmi

da "L'Amico del Clero", 2020


[1] Sostanzialmente identico ai canoni 487 e 572 ss. del CIC 1917.

[2] Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione Dogmatica sulla Chiesa Lumen Gentium, 21 novembre 1964, in AAS 57 (30 gennaio 1965).

[3] Si legge in LG 39: «Questa pratica dei consigli, abbracciata da molti cristiani per impulso dello Spirito Santo, sia a titolo privato, sia in una condizione o stato sanciti nella Chiesa, porta e deve portare nel mondo una luminosa testimonianza e un esempio di questa santità».

[4] Cfr. LG 44 e Concilio Vaticano II, Decreto Perfectae Caritatis, (28 ottobre 1965), sul rinnovamento della vita religiosa, in AAS 58 (1966) 331-353, al nr. 5, dove si afferma che l'evento liturgico ed ecclesiale d'una professione religiosa «costituisce una speciale consacrazione che ha le sue profonde radici nella consacrazione battesimale e la esprime in maniera più piena».

[5] Per approfondire, tra gli altri, in A. Calabrese, Istituti di vita consacrata e Società di vita apostolica, Città del Vaticano, 1997 e Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e Società di Vita Apostolica, Ripartire da Cristo. Un rinnovato impegno della vita consacrata nel terzo millennio, Istruzione (19 maggio 2002).

[6] Costituzione Apostolica di Papa Pio XII Provida Mater Ecclesia, 2 febbraio 1947, in AAS 39 (1947), con cui vennero riconosciuti e approvati ufficialmente gli Istituti secolari, poi disciplinati in altri documenti giuridico-disciplinari che fecero seguito. Si può approfondire in L. Navarro, L'istituto dell'incardinazione. Natura e prospettive, Roma, 2006.

[7] Il canone 1197 prevede anche che «L'opera promessa con voto privato, può essere commutata con un bene maggiore o uguale anche da chi l'ha emesso; con un bene minore, invece, da chi ha potestà di dispensare a norma del can. 1196».

[8] Canone 1196: «Oltre al Romano Pontefice, possono dispensare dai voti privati per una giusta causa e purché la dispensa non leda l'altrui diritto acquisito:1° l'Ordinario del luogo e il parroco, relativamente a tutti i proprio sudditi e pure ai forestieri; 2° il Superiore di un istituto religioso o di una società di vita apostolica, se sono clericali di diritto pontificio, relativamente ai membri, ai novizi e alle persone che vivono giorno e notte in una casa dell'istituto o della società;
3° coloro ai quali sia stata delegata la potestà di dispensare dalla Sede Apostolica o dall'Ordinario del luogo
».

[9] E' il Codice del 1983 che ha concesso ai Parroci e altri sacerdoti facoltà piuttosto importanti di dispensare, attribuendo loro, nei casi previsti dai canoni del codice, l'esercizio del potere di carattere esecutivo-amministrativo.

[10] Graziano, il maestro di Bologna, nelle sue Collezioni, dopo aver dichiarato che da questi due brani della Bibbia il giuramento appare illecito, distingue poi tra il giuramento fatto per libera iniziativa, che è sempre proibito, e il giuramento prestato per attestare la propria innocenza o la verità di alcuni fatti, che è invece concesso. La stessa cosa la troviamo affermata da un altro grande canonista, Isidoro di Siviglia, nel secondo libro delle Sentenze. Alla stessa conclusione giunge anche San Tommaso d'Aquino nella Summa Theologiae (II-II, q. 89).

[11] Cfr. Liber Sextus di Papa Bonifiacio VIII e numerosi interventi da parte di altri Pontefici. Tra i più recenti, nel 1825, ricordiamo la Costituzione Quo graviora di Papa Leone XII.

[12] Il canone 1532 riguarda il giuramento giudiziale delle parti, limitatamente ai giudizi contenziosi non penali. Si estende quindi ai processi speciali, come quello di nullità matrimoniale. Il canone 1562 tratta invece del giuramento da deferire ai testimoni.

[13] Così, S. Pettinato, Il giuramento promissorio nel Codice di diritto canonico, in Il diritto ecclesiastico 106 (1995), p. 185-207, a p. 191.

[14] Cfr. Canone 488 del codice del 1917.



© 2020 Mail: donantonio.fano@gmail.com
Creato con Webnode
Crea il tuo sito web gratis! Questo sito è stato creato con Webnode. Crea il tuo sito gratuito oggi stesso! Inizia